OBAMA: La forza dell'emozione

Figlio di un paese che chiede il cambiamento
Guido Moltedo su Caffeeuropa.it



Barak Obama

Molti amici della cerchia ristretta l’esortavano ad aspettare. Molti commentatori dicevano che la sua candidatura era prematura. Erano in tanti a sostenere che sarebbe stato saggio “saltare un giro”. “Resta ancora otto anni al senato”, insistevano (già, perché “saltare un giro” significava dare per scontato che una presidenza Clinton sarebbe durata due mandati). L’attesa l’avrebbe fatto crescere, l’avrebbe rafforzato, l’avrebbe reso più credibile. Avrebbe stemperato sospetti e diffidenze su un personaggio indubbiamente carismatico, eppure ancora enigmatico per molti americani. Barack Obama soppesò molto seriamente questi consigli, aggiungendoli ai timori della moglie Michelle e dei suoi cari: la vita sua e della famiglia sarebbe radicalmente cambiata, anche dal punto di vista della sicurezza personale. La paura per la sua incolumità è stata fin dall’inizio in cima alla lista dei fattori contro la sua candidatura. Alla fine, come sappiamo, Obama ha deciso di candidarsi cimentandosi in una difficilissima sfida con Hillary, l’“ineluttabile” vincitrice della corsa secondo tutti i sondaggi condotti prima dell’inizio delle primarie e secondo il quasi unanime parere dei commentatori.Adesso che l’incoronazione alla convention democratica suggella l’esito delle primarie e s’avvicina il duello diretto per la conquista della Casa Bianca, con alte probabilità di vittoria, la decisione di Obama e dei suoi strateghi più fidati (“i due David”, Axelrod e Plouffe) appare quanto mai azzeccata: non tanto per il dato più evidente – il successo finale conseguito, una bella vittoria, certo, ma ottenuta di misura nei confronti di Hillary – ma soprattutto per tutto quel che la sua candidatura ha rappresentato e rappresenta, come si è visto nel corso di una campagna elettorale che ha elettrizzato l’America e ha contagiato il mondo.
Ha ragione Paul Krugman quando afferma che il fenomeno Obama è figlio di un’America che oggi “is a different country” e che “vent’anni fa la nomination di Obama non sarebbe stata possibile”. Già, ma senza la candidatura di una figura come quella di Barack – adesso, in queste elezioni, non tra otto anni – avremmo visto in azione quest’America cambiata? Ce ne saremmo resi conto? Avremmo osservato con la stessa nettezza il change che evidentemente è sentito con urgenza da tempo ma che nessuno ha saputo finora interpretare? E che neppure una vittoria di Hillary avrebbe saputo fare?Nella politica il timing è tutto. Il momento di Obama è questo. Dal punto di vista della contingenza politica attuale, la sua candidatura riflette una voglia diffusa e crescente di cambiamento, che attraversa anche il campo repubblicano. Mai così pressante, negli ultimi decenni, era stata la richiesta di un “mutamento di direzione” rispetto alla politica fallimentare dell’amministrazione Bush: l’80 per cento degli americani pensa che il paese corra sul “binario sbagliato”. Ma ancora di più delle spinte contingenti, contano le correnti più profonde che attraversano la società americana in generale e la cultura politica progressista in particolare.L’America non è più il paese in bianco e nero che ci si ostina a rappresentare. La contrapposizione razziale ha via lasciato il posto a una complicata chimica multietnica, multiculturale e multireligiosa che il figlio di un africano immigrato e di una bianca del Kansas rispecchia perfettamente. Il che gli consente, anche per la generazione post-sessantottina a cui appartiene, di “elaborare” e andare oltre la polarizzazione che dal Vietnam a oggi ha egemonizzato il discorso pubblico e che, dai suoi coetanei in giù, continua ad allontanare dalla politica le nuove generazioni. Con Hillary queste identificazioni non sarebbero state possibili. E sarebbe stato più difficile, per la Clinton, penetrare nel campo repubblicano e nelle roccaforti della destra religiosa, operazione che, invece, riesce relativamente agevole a Obama (soprattutto, di nuovo, tra le nuove generazioni, ma non solo). In ultimo, ma non per importanza, il senatore dell’Illinois è il campione della politica che viaggia su internet e che sempre più diventa l’elemento decisivo nel nuovo scenario americano e mondiale.
Approdo finale di straordinarie primarie, la convention di Denver rifletterà questo gran ribollire di istanze di cambiamento e di passioni. Sarà tutto fuorché un congresso di ratifica. Non che sia immaginabile la riapertura della partita per la nomination, anche se perfino di questo parlano i clintoniani più oltranzisti. Ma, c’è da scommetterci, nel palazzo dello sport del Pepsi Center, protagonisti e delegati porteranno con sé la complessità del momento che vive l’America e il travaglio in cui si dibatte il Partito democratico. Sicuramente, quel che anche a causa dei candidati prescelti, decisamente convenzionali, non riuscì alle due precedenti convention – cioè segnare politicamente l’inizio del nuovo millennio – sarà possibile a Denver. La nomination ufficiale di Barack Obama simboleggerà davvero l’inizio di una nuova era.

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